Oggi lavoro da casa.
Lavoro noioso, apro il campione, tiro fuori un po’ di insetti, li passo al microscopio per il riconoscimento. Ogni tanto stacco gli occhi dalla vaschetta dove galleggiano gli insettini fissati in etanolo, guardo fuori dalla finestra e mi godo la montagna, il bosco verde brillante come è solo in primavera, le nuvole basse che a sprazzi lasciano trapelare qualche timido raggio di sole.
Mi godo il fresco che entra dalla finestra, aperta nonostante la pioviggine, annuso l’odore dell’erba bagnata e penso che tutto sommato sono fortunato.
Fino a qualche mese tutte queste cose erano un ricordo lontano, tutta la settimana passata tra Monza e Milano per un lavoro che, nonostante i colleghi fantastici, non era il mio.
Si, il weekend tornavo tra i miei monti, ma stanco dagli orari assurdi della settimana e con la donna che giustamente mi reclamava un po’ per se, il tempo per prendermi i miei spazi era risicatissimo e i risultati di conseguenza non erano quasi mai soddisfacenti, così finivo per prendere il treno la domenica sera più stanco di come ero arrivato.
Poi una chiamata, un curriculum via mail e arriva l’opportunità di fare quello per cui ho studiato, stando in mezzo a fiumi, laghi e montagne anche per lavoro. Ovviamente con i suoi lati negativi, ma finalmente alla fine dell’anno scorso torno a casa.
Già mi aspettavo di passare tutta la primavera tra pesca e funghi per recuperare tutto quello che non avevo potuto fare nell’anno e mezzo appena trascorso.
Ma, a rovinare i miei migliori propositi, è arrivato questo maledetto covid-19.
Intendiamoci, esistono posti peggiori di Castello Cabiaglio per passare il lockdown e mi rendo conto ancora una volta di quanto io sia stato fortunato, ma ero appena tornato alla libertà e mi vedo costretto di nuovo in casa.. Insomma, ditelo pure che qualcuno ai piani alti ce l’ha con me.
Ed è con questo spirito che, come un cavallo finalmente libero di andare a briglia sciolta, settimana scorsa mi son lanciato su laghi e fiumi, canna in mano, pieno di aspettative e sogni da realizzare, risultato: cappotto
Infatti, dopo una breve scappatella in torrente mercoledì scorso conclusasi col torrente tristemente senz’acqua e con solo un paio di trotelle a guadino, domenica pomeriggio l’avevo passata lanciando stirelle nel lago alla ricerca del mio amato luccio, macinando più di 12km di sponda in 6h di pesca e rimediando soltanto un sonoro cappotto.
Così martedì dopo il lavoro cambio specie, mi lancio a siluri confidando nel temporale, ma trovo acqua bassa e pulita. Nonostante le premesse sento un paio di mangiate che non capitalizzo e torno a casa con un’altra legnata sui denti.
Mi sa che durante l’annetto passato ho perso un po’ di smalto.
Ed è così che oggi pomeriggio mi trovo a guardare le nuvole che si assembrano minacciose fuori dalla finestra chiedendomi se andare a pesca rischiando l’ennesimo cappotto con annessa lavata o se restarmene a casa tranquillo...
Ma ovviamente la voglia di pescare è forte.
Gli stivali li ho lasciati al lavoro, quindi il torrente per uno scappotto facile è fuori portata.
Rimango i soliti siluri, che potrebbero essere attivi visto il temporalone di ieri, o un nuovo tentativo a lucci.. così decido di coniugare le due cose scegliendo uno spot dove ho entrambi a distanza di poche centinaia di metri.
Arrivo e trovo condizioni decenti: l’acqua si è alzata, le nuvole non sono più così minacciose e il vento che temevo è in realtà una leggera brezzolina, peraltro decisamente piacevole.
Son già contento così, dedico una mezzoretta alla ricerca dei siluri senza troppa convinzione, poi il richiamo del lago prende il sopravvento e torno a lanciare i miei artificiali alla ricerca del Re.
Negli ultimi anni chi mi conosce sa che i grandi laghi hanno preso sempre più spazio nella mia già ridotta attività alieutica, trovo che lanciare nel nulla abbia un che di catartico, poco importa se difficilmente si torna a casa con qualche foto da mostrare agli amici.
Purtroppo anche a questo giro le premesse non son delle migliori, un amico che pesca parecchio mi fa sapere che i lucci, che a inizio settimana scorsa erano a riva per il post frega, si stanno già abbassando per tornarsene sulle batimetriche dove passeranno l’estate inseguendo agoni e lavarelli.
Insomma, già pronto al cappotto inizio a battere uno spot che mi piace da matti, nonostante non ci abbia mai preso un pesce: una zona di acque bassa digrada velocemente formando un bucone a poca distanza da riva che si apre verso il lago.
Batto con convinzione qualche centinaio di metri di sponda alternando le più classiche esche di reazione primaverili, jerk, spinner, qualche swim e persino un ondulantone (si sa mai che qualche siluro è in giro anche qui), niente di niente. Arrivato in fondo decido di ribattere la sponda con qualcosa di meno invasivo e cercando tra le esche salta fuori un bulldawg da 30cm, che non so perché mi sembra l’esca perfetta in questa situazione.
Così inizio il mantra, lancio più possibile, recupero lineare fino al gradino, quando arrivo ai primi sassi alzo la canna e recupero a palla per non incagliare.
Lancio, recupero, lancio, recupero. Un po’ alla volta mi riporto all’inizio della buca.
Lancio a 45°, l’esca scende sul piattone, recupero lentamente lasciando che l’esca assecondi l’aumento di profondità.. Stop secco.
Ferro d’istinto, non capisco se è un pesce, cerco di far risalire l’esca per levarla dagli incagli del fondo, sento che viene ma a fatica, ho preso un ramo? No, per quanto pigra c’è vita dall’altra parte, i pensieri partono a mille: c@zzo è un pesce, ma che diavolo ho preso, è pesante, tira strano, è un maledetto siluro?
Forte dell’attrezzatura sovradimensionata lo stacco dal fondo, una volta a galla il pesce capisce che farebbe più bella figura a far finta di tirare e tenta un paio di ripartenze..
ma aspetta un attimo, non sembra un siluro, ho visto bene?
Eh si, quando lo riporto verso di me il becco non lascia dubbi, è un luccio!
Sono su una prismata in una posizione non proprio felice, mi devo inginocchiare in acqua per avere una presa comoda, non maneggio un luccio da una vita, ma in una routine mai dimenticata avvicino il pesce, faccio scorrere le dita ungo l’opercolo e serro la presa sull’osso, sfiorando appena le branchie: MIO.
Sono stordito, da quanto tempo mi mancava tutto questo?
Voglio una foto ma non ho molto spazio per muovermi, imposto l’autoscatto lancio la macchina fotografica su un sasso senza nemmeno cercare il cavalletto, sollevo il pesce e abbozzo un sorriso ebete fortunatamente nascosto dalla mascherina chirurgica:
non controllo nemmeno il risultato, misurazione volante e nel giro di 30 secondi dall’opercolare il pesce è di nuovo in acqua, una foto al volo col cellulare e via di nuovo nelle profondità del lago.
A questo punto mi siedo.
Una vocina nella testa mi dice che sarebbe il momento di insistere, magari si è aperta la finestra, magari potrei prenderne un altro, forse due…
Ma in fondo, che mi frega?
Di tempo per prendere altri pesci ne avrò ancora in futuro, questo momento non lo vivo da due anni.
Penso a quanto mi mancava tutto questo: il lago, i mille lanci, l’adrenalina.
Lo so, non è un pesce enorme.
Non è nemmeno il luccio più grosso che abbia mai preso, il più tecnico o il più adrenalinico.
È semplicemente un pesce che mi mancava da troppo tempo.
E oggi son felice così, tutto il resto può aspettare domani.
E resto lì, seduto, a godermi il tramonto.